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LE FORME DI APPROPRIAZIONE 2.0

Conseguenza del materialismo storico è che lo sviluppo delle forze produttive, quindi del lavoro sociale in quanto divisione del lavoro, porti necessariamente ad una socializzazione crescente delle strutture sociali, cioè alla piena realizzazione della società come comunità. Questo movimento reale trova corrispondenza a livello sovrastrutturale nel pensiero economico di ogni epoca, in particolare in quello della società borghese in quanto fase culminante di tale sviluppo. Per questo essa prelude necessariamente al comunismo e in parte lo anticipa. La sua logica interna e le contraddizioni che ne seguono, sia a livello concettuale che pratico, la spingono verso tale approdo. Certamente non sono le idee e le loro contraddizioni il motore della storia, ma sono tuttavia la rappresentazione ideologica, quindi distorta ma anche allusiva, delle forze reali del movimento storico, cioè quelle dell’attività pratica umana, la cui forma più alta è il lavoro sociale. E’ possibile seguire i due sviluppi, quello del movimento reale e quello ideologico, come processi che si illuminano a vicenda. Specialmente chiarificatori sono i concetti fondamentali dell’ideologia borghese in campo economico, in particolare il concetto di proprietà, per il quale si può affermare che lo sviluppo delle sue contraddizioni va nella direzione del comunismo.

1. Legge del valore e legge del lavoro

Consideriamo il rapporto di produzione nei due casi canonici: società mercantile semplice e società capitalistica. Le due società differiscono per diversi aspetti, ma il rapporto di produzione appare in entrambe nella forma giuridica di rapporto tra proprietari indipendenti. Come viene realizzata questa forma? Innanzitutto il rapporto viene espresso in forma duale, cioè attraverso due forme diverse di proprietà: la proprietà primaria realizzata nella produzione, oppure quella secondaria che compare nella circolazione come trasferimento di proprietà.

Nella società mercantile semplice domina la proprietà primaria, cioè un prodotto è proprietà del produttore, di chi lo ha prodotto con il suo lavoro, per cui vale la legge del lavoro. Infatti in tale società la produzione è opera di singoli produttori indipendenti, che sono tali in quanto proprietari dei fattori di produzione, cioè lavoro e mezzi di produzione, poiché il lavoro è il loro proprio lavoro e i mezzi di produzione sono prodotti da loro stessi o acquistati con i prodotti del loro lavoro. Quindi il prodotto deriva solo dal loro lavoro, direttamente dal lavoro immediato o indirettamente da quello pregresso. Pertanto in virtù della legge del lavoro il produttore è riconosciuto come proprietario del prodotto. Ma perché vale questo principio? In realtà il produttore è proprietario del prodotto in quanto esso è una ricombinazione di oggetti di sua proprietà. Quindi il produttore è riconosciuto come proprietario del prodotto per il fatto che è l’unico proprietario dei fattori di produzione, la cui combinazione costituisce il prodotto. Ma è proprietario dei fattori in quanto essi sono il prodotto del suo lavoro, cioè in quanto è in grado di autoriprodursi come lavoratore indipendente, cioè di riprodurre se stesso e i suoi fattori di produzione con il suo lavoro personale. Quindi è il lavoro del proprietario ciò che realizza il rapporto di proprietà, che pertanto è un rapporto di produzione.

Ma nella realizzazione della legge del lavoro interviene un secondo modo di appropriazione, lo scambio, in cui l’appropriazione è regolata dalla legge del valore, la quale implica che una proprietà può essere alienata solo a condizione che il proprietario acquisisca un’altra proprietà equivalente alla prima in termini di lavoro astratto e socialmente necessario. I produttori entrano in rapporto come tali solo nella circolazione che sostanzialmente conferisce al lavoro totale della società la forma di una particolare divisione del lavoro, quella dei mestieri, non organizzata ma effettiva, attribuendo al lavoro carattere sociale. Infatti ogni produttore attende ad un singolo processo di lavoro che si conclude nella creazione di un prodotto finale pronto all’uso, eventualmente scambiato per il consumo finale. Questi processi di lavoro costituiscono segmenti del lavoro totale della società, che così viene strutturato sulla base di una specifica divisione del lavoro. Si tratta di una divisione del lavoro parziale, intermedia tra l’autarchia dell’economia famigliare, in cui al fatto che tendenzialmente tutto viene prodotto all’interno e gli scambi riguardano solo le eventuali eccedenze, corrisponde una divisione del lavoro piuttosto rozza. L’altro estremo è il capitalismo che porta a compimento il processo sviluppando la divisione del lavoro fino ai suoi limiti estremi, e trasforma tutta la produzione in produzione di merci.

Anche il rapporto di produzione capitalistico si presenta in forma duale: da una parte nella produzione come realizzazione del lavoro sociale, cioè come divisione del lavoro all’interno di ogni singolo segmento del processo di lavoro; dall’altra nella circolazione, che realizza una ridistribuzione del prodotto totale fra le singole imprese per rinnovare il ciclo. Ma nel capitalismo il rapporto di produzione subisce cambiamenti essenziali. La produzione crea la proprietà ma solo per il capitalista che ha diritto all’intero prodotto, mentre i produttori ne sono totalmente esclusi. Ciò accade perché i produttori sono indipendenti solo formalmente in quanto entrano in un nuovo livello di divisione del lavoro che si realizza all’interno della singola unità produttiva, cioè nel singolo segmento produttivo, istituendo la divisione del lavoro manifatturiera. Anche qui dalla circolazione sorge la proprietà secondaria, ma a differenza della società mercantile semplice, la forza lavoro, che si materializza nei mezzi di sostentamento, assume pienamente il carattere di fattore di produzione, cioè reificato, e diviene merce, per cui il plusprodotto può essere reinvestito per rinnovare il ciclo. Infine i produttori entrano in rapporto fra di loro solo nella produzione e solo indirettamente, tramite il capitalista, cioè non hanno rapporti di scambio ma si rapportano solo nella divisione del lavoro istituita dal capitalista.

Nella produzione mercantile semplice, cioè nell’artigianato e nella piccola proprietà fondiaria, le due leggi dell’appropriazione sono in armonia. La prima legge crea la proprietà, la seconda la trasforma cambiandone l’oggetto, in quanto permette al proprietario di mutare il bene prodotto in valore d’uso specifico per il proprio consumo personale. Cioè lo scambio è finalizzato al consumo personale. Lo stesso ruolo svolgono le due leggi nel capitalismo, ma con il suo sviluppo presto esse entrano in conflitto. Non esistendo produzione per l’autoconsumo, i fattori di produzione entrano tutti nel mercato, per cui il capitalista li può acquisire come proprietà secondaria. Ma questa proprietà è essenzialmente diversa da quella secondaria. Infatti si determina una terza forma di appropriazione, cioè la proprietà dei fattori di produzione si autonomizza travalicando lo scambio e diviene condizione sufficiente per l’appropriazione del prodotto assumendo così il carattere di lavoro immediato, cioè di fonte di proprietà primaria. Allo sviluppo della portata della legge del valore, che conferisce un valore alla forza lavoro, corrisponde il venir meno della legge del lavoro. Infatti il produttore stesso viene posto come merce, cioè viene reificato come forza lavoro e ridotto a semplice fattore di produzione, ciò che permette di concentrare nelle mani di un unico proprietario tutti i fattori di produzione, e ciò su scala illimitata. Ma l’acquisizione dei fattori mediante scambio permette l’alienazione di tutto il prodotto. In tal modo il principio di appropriazione attraverso il lavoro viene sostituito da quello dell’appropriazione attraverso la sola proprietà dei fattori, separata dalla produzione ad opera del proprietario (che può esserci, e allora è considerata lavoro salariato, ma di norma è assente). Cioè la legge del lavoro è sostituita dalla legge della proprietà.

Ora il produttore non è più proprietario del prodotto perché produttore ma è produttore perché proprietario dei fattori. Questa inversione viene agevolata quando il valore astratto si oggettiva nella forma di denaro e la ricchezza in tale forma si concentra nelle mani del capitalista, incontrandosi infine con l’indigenza del produttore, come tale possessore unicamente della propria forza lavoro isolata. Essendo costretto a vendere per comprare, vende la sua unica proprietà, la capacità di lavoro, e insieme ad essa il diritto di appropriazione sul prodotto. In realtà si aliena ben di più, vende i suoi diritti come membro della società e in definitiva vende la sua essenza umana. Come Esaù vende i suoi diritti umani e naturali per un piatto di lenticchie, per la semplice sopravvivenza. Il fatto che nella definizione dei diritti sul prodotto l’accento venga posto sulla proprietà dei fattori in quanto proprietà secondaria, cioè proprietà di un valore, e non come proprietà primaria, cioè come proprietà di un lavoro, è conseguenza del fatto che nel capitalismo questo computo renderebbe visibile il fatto che alla base di questa abnorme concentrazione di valore in poche mani vi sono permute inique, cioè permute in cui una delle parti non riceve l’equivalente di quanto ha venduto. Si dà alla proprietà un valore assoluto senza risalire a ciò che fonda questo diritto, il lavoro del proprietario.

Ma il reale fondamento del modo di produzione capitalistico è un fatto sociale: la separazione del lavoro dai mezzi di produzione, che sono proprietà di due classi distinte. Ciò è determinato da un semplice evento, dal fatto che la divisione del lavoro dei mestieri, caratteristica della società mercantile semplice , non può competere con la divisione del lavoro manifatturiera. Ciò comporta la trasformazione di artigiani e piccoli coltivatori proprietari ed affittuari in proletari, cioè in forza lavoro reificata

Apparentemente in questo slittamento della legge del valore da criterio di ridistribuzione di valori d’uso a fonte della proprietà primaria nulla è cambiato rispetto alla società mercantile semplice. In entrambi i casi ciò che determina la proprietà del prodotto è la proprietà dei fattori, ma mentre nella società mercantile tutto il prodotto va al produttore, nel capitalismo il produttore ne è escluso a favore del capitalista. In questo cambiamento appare fondamentale il ruolo del denaro. Dal punto di vista del produttore ciò che accade è che da una parte il denaro può sostituirsi al produttore materiale, alla vera ed unica fonte del prodotto, e dall’altra personificarsi nel capitalista, che può così divenire proprietario di tutti i fattori e perciò di tutto il prodotto. Dal punto di vista del capitalista, è il capitalista stesso che attraverso il capitale monetario figura come il produttore reale, cioè diviene il demiurgo del processo di produzione come se vi operasse personalmente ed esclusivamente. Per cui il capitalista ricrea surrettiziamente l’unità produttiva fondamentale, quella del singolo produttore indipendente, cioè della società mercantile semplice. Ma la ricostituzione di tale modello è solo ideologica. Sostanzialmente il capitalista identifica il rapporto di produzione capitalistico con quello mercantile semplice in modo che per lui appaia lecito acquisire un diritto esclusivo sul prodotto e per il produttore reale essere totalmente privato di esso, salvo vederlo ritornare in suo possesso, ma solo in parte, come salario, e solo nella misura necessaria alla sua riproduzione giornaliera e generazionale. Ma tale recupero ha luogo a posteriori, dopo un braccio di ferro contrattuale e sovente politico, dopo esserne integralmente espropriato. Quindi diviene operante una nuova legge di appropriazione, che nega quella del lavoro.

2. La legge di proporzionalità

L’appropriazione della totalità del prodotto, quindi del plusprodotto, sulla base della proprietà dei fattori contraddice la legge del lavoro ma nell’impresa capitalista ciò non appare. Qui i soggetti che partecipano al processo produttivo sono due, capitale e forza lavoro, e appaiono non come proprietari di fattori della produzione che stanno sullo stesso piano ma come classi delle quali la prima impone alla seconda un rapporto di produzione giugulatorio, nel quale il capitalista si appropria di tutto il prodotto. Ciò in quanto il salariato è costretto a vendere la sua unica proprietà, il lavoro, perdendo così il diritto al prodotto. Ma ciò non risulta evidente, in quanto il rapporto di produzione viene stabilito consensualmente sul piano giuridico in forma contrattuale da contraenti formalmente indipendenti. Secondo le regole capitaliste il capitale accaparrandosi la proprietà dei fattori acquistandoli sul mercato, acquista con essi anche il diritto a tutto il prodotto, dal quale, detratti i costi di produzione, cioè salari anticipati e ammortamento dei mezzi di produzione, ottiene il plusprodotto. Tutto sembra in regola: introducendo i concetti di forza lavoro e mezzi di produzione gli scambi sono tra equivalenti; i fattori sono reintegrati al loro valore, ma il risultato è che tutto il plusprodotto resta nelle mani del capitale. I rapporti si chiariscono quando la proprietà è espressa mediante il possesso di azioni, cioè è frazionata, in quanto i diversi contributi alla produzione sono quantificabili e confrontabili fra loro. Qui la legge di appropriazione del plusprodotto è che la quota spettante ad ogni partecipante al processo produttivo è proporzionale al valore del contributo, cioè la ripartizione del plusprodotto avviene in base ad una legge di proporzionalità. Ma questo vale solo per gli azionisti, proprietari pro quota dei fattori.

Tuttavia sono possibili altri modi di ripartizione del plusprodotto altrettanto ‘equi’. Consideriamo il caso in cui la legge di proporzionalità sia applicata come estensione della legge del lavoro, cioè distribuendo il plusprodotto in ragione del contributo computato in lavoro. Quindi il lavoro immediato viene computato in termini di se stesso, i mezzi di produzione in termini del loro valore, quindi di lavoro pregresso. Il prodotto è distribuito proporzionalmente ai contributi così determinati e il plusprodotto detraendo i costi di produzione, cioè i contributi. In primo luogo va osservato che il principio di proporzionalità è coerente con le due leggi, poiché quella del valore è indispensabile quanto quella del lavoro per la sua applicazione. Infatti la legge del valore è necessaria non solo per confrontare i diversi lavori nella divisione del lavoro ma anche per applicare la legge di proporzionalità, quindi la legge del lavoro, e determinare la ripartizione del prodotto. Se l’applicazione della legge del valore va ristretta al solo confronto dei lavori, la legge del lavoro va applicata in tutta la sua estensione, cioè per ogni lavoro produttivo, quindi per ogni consumo produttivo, sia esso consumo di lavoro soggettivo che di lavoro oggettivato, cioè di lavoro vivo e lavoro morto, quindi lavoro immediato e lavoro pregresso materializzato nei mezzi di produzione.

Il principio di proporzionalità nasce dal capitalismo maturo, poiché rispecchia il criterio in base al quale vengono distribuiti i dividendi in una società per azioni, cioè in proporzione al capitale versato. Infatti in tale ambito il suo carattere di classe è evidente in quanto viene applicato solo al capitale monetario, non a quello produttivo. Cioè solo se i contributi dei partecipanti al capitale sono conferiti nella forma di denaro. Infatti poiché non appena gli stessi contributi appaiono concretamente come lavoro, cioè quando si considera il contributo materiale apportato al processo produttivo, quello dei lavoratori, cioè il lavoro immediato, questo viene escluso dalla ripartizione del plusprodotto, ottenuto detratte le quote di capitale anticipato, cioè l’ammortamento e i salari, come reintegrazione del capitale consumato, che viene di fatto ripartito esclusivamente tra coloro che partecipano al processo conferendogli i mezzi di produzione. Questo è giustificato col fatto che il capitale monetario ha acquistato non solo i mezzi di produzione ma anche il lavoro, e come proprietario di tutti i fattori anche il suo diritto al plusprodotto. Se invece si applica la proporzionalità commisurando il contributo alla produzione in termini di lavoro complessivo – quindi quello dei lavoratori come lavoro immediato, quello contenuto nei mezzi di produzione come lavoro pregresso – il principio di proporzionalità implica una partecipazione dei produttori al plusprodotto, come conseguenza della legge del lavoro.

A questo proposito occorre notare che il contributo in lavoro implica che esso deve comprendere anche la sussistenza. Se il ciclo della produzione è già in atto la sussistenza relativa ad un ciclo proviene dal prodotto del ciclo precedente, altrimenti deve essere assicurata da un fondo salariale anticipato dai lavoratori stessi. Che il contributo di ciascun associato debba comprendere elementi aggiuntivi deriva dal fatto che i fattori devono essere effettivamente operativi. Ciò comporta l’anticipazione dei salari per la durata di un ciclo da parte dei lavoratori, per i proprietari dei mezzi di produzione l’anticipo delle forniture energetiche, l’affitto degli edifici, la commercializzazione, ecc. mentre non è necessario anticipare il sostentamento dei proprietari dei mezzi di produzione, in quanto essi non sono fattori di produzione, come invece lo sono coloro che partecipano all’investimento con il loro lavoro. Naturalmente questo contributo è necessario solo per il primo ciclo, cioè per l’avviamento della produzione, come peraltro per ogni altro contributo. Si tratta sempre di un investimento che viene rigenerato dal processo produttivo. Ciò rende più difficoltosa la partecipazione dei lavoratori, perché implica non solo il possesso del lavoro, che si può dare per scontato (anche se in realtà non lo è), ma anche dei mezzi di sostentamento. Quindi il lavoratore è sostanzialmente salariato di se stesso, cioè capitalista che come tale deve disporre di un capitale.

Ma occorre considerare il rapporto tra la legge di proporzionalità e quelle del valore e del lavoro. La legge di proporzionalità può essere applicata solo se la proprietà dei fattori è proprietà primaria o derivata da essa mediante scambio, perché solo così si crea una situazione analoga a quella del produttore singolo che crea la sua proprietà. Quindi innanzitutto la questione è la proprietà e la sua fonte materiale, il lavoro, per cui questa esiste solo se è stata acquisita con il lavoro del proprietario o con scambi successivi. Ma solo nel primo caso viene creata, poiché nell’altro viene semplicemente trasferita, cioè conservata. Se la proprietà si conserva ciò può verificarsi in un solo modo, cioè come risultato di una serie di scambi, cioè se è stata acquisita per mezzo di un suo lavoro pregresso, quindi in generale per mezzo di una successione di scambi a partire da una proprietà primaria che si vuole trasformare in fattore. Quello che importa è che la proprietà dei fattori sia proprietà primaria o proprietà derivata da essa a partire da permute tra equivalenti. Ma la produzione di un fattore richiede, oltre al lavoro immediato anche l’uso di mezzi di produzione, che siano di proprietà del produttore, riproponendo il problema e così via in un regresso all’infinito, ma il problema è risolvibile sommando la serie corrispondente. Naturalmente questa clausola della personalità del lavoro vale anche per i lavoratori diretti in quanto i mezzi di sostentamento sono parte integrante del loro contributo all’associazione.

Se la proprietà non si conserva ciò accade perché si verificano violazioni della legge del valore. Queste possono essere di due tipi: o reati contro la proprietà o l’utilizzazione di lavoro salariato. Nel primo caso si è di fronte ad uno scambio asimmetrico o a una appropriazione senza scambio, nel secondo si contravviene alla legge di proporzionalità, privando il proprietario di un fattore di produzione della sua quota di plusprodotto. Questo può essere evitato personalizzando il lavoro. Infatti il risultato cui si vuole pervenire computando la partecipazione alla costituzione dei fattori di produzione in termini di lavoro, immediato o pregresso, del proprietario finale, è che la proprietà dei fattori si identifichi con il lavoro dei proprietari. Questa condizione permette una ripartizione del prodotto come estensione della legge del lavoro alla produzione collettiva, cioè alla divisione del lavoro. Tale generalizzazione è possibile se si ammette che l’acquirente di una merce subentri in tutti i diritti su di essa che appartengono al venditore, che sono gli stessi cui rinuncia l’acquirente sulla merce da lui ceduta. D’altra parte ciò è necessario perché si realizzi lo scambio, altrimenti si ricadrebbe nei casi di illecito. La compravendita di forza lavoro è uno di questi. Se la legge del valore resta valida entro questi limiti, proprietà e legge del lavoro si identificano e la legge del lavoro diviene una base per la ripartizione razionale del prodotto. La legge di proporzionalità ha come finalità quella di impedire che la proprietà dei fattori si impossessi del prodotto come se il capitalista avesse lavorato personalmente alla loro produzione. L’altro abuso è che il lavoro salariato viene escluso dalla ripartizione del plusprodotto. Abolendo questi due aspetti del rapporto di produzione l'impresa capitalista viene trasformata in una associazione di produttori, in cui è possibile applicare un modo di produzione fondato sull’autogestione.

Nella realtà capitalista quale delle due applicazioni della legge di proporzionalità, quella capitalista o quella autogestionaria, sia attuata lo decide chi è in grado di anticipare il capitale. Ma questa è una questione di potere contrattuale, estranea alla coerenza interna delle leggi. Infatti il passaggio dall’uno all’altro fra i due modi di applicazione della proporzionalità è reso possibile dalla sostituzione dei fattori di produzione in quanto valore d’uso, con il capitale monetario in quanto valore, sostituzione possibile poiché quest’ultimo è sempre trasformabile in capitale produttivo in quanto i fattori sono reperibili nel mercato, soprattutto la forza lavoro, sorgente di ogni fattore. Questa possibilità è definita dal modo di produzione vigente, cioè definita politicamente e giuridicamente. Infatti se il lavoro salariato divenisse illegale il capitalismo svanirebbe. D’altro canto, se i proprietari dei fattori prima dell’alienazione dei fattori al capitale monetario si associassero sulla base della parità di diritti sul prodotto, la ripartizione del plusprodotto secondo la proporzionalità seguirebbe come un fatto naturale. Sono le condizioni storiche che impediscono che ciò accada e che sia invece il capitale monetario a riunire ed organizzare i fattori e quindi ad impadronirsi di tutto il prodotto. Ciò che appare alla superficie semplicemente come un libero atto di compravendita tra proprietari indipendenti, in realtà è il mascheramento di un rapporto di potere. La possibilità per il denaro di acquistare i fattori di produzione dipende dal rapporto di produzione, che è in pari tempo tecnico e politico, cioè un rapporto di dominio che appare come rapporto tecnico. I due modi di applicazione della legge di proporzionalità e se sia applicato l’uno o l’altro, sono conseguenza del rapporto di produzione. La questione è tutta nel fatto che il lavoro è oggettivamente un fattore di produzione per il capitalista , cioè una merce reperibile sul mercato, e il capitalista lo considera tale soggettivamente, ma non lo è per il produttore che pur essendone il possessore legittimo non può conferirlo all’impresa come investimento. Questa impossibilità non è un divieto, ma deriva dal fatto che il produttore non può aspettare che il suo investimento si valorizzi, in quanto non possiede una riserva. D’altra parte se possedesse tale riserva la investirebbe come capitale e non sarebbe più un proletario. Quindi è costretto a vendere la sua unica proprietà al capitalista, esattamente come il contadino è perennemente costretto a vendere il raccolto all’usuraio prima della mietitura. In effetti la proprietà dei fattori è subordinata all’effettivo possesso, cioè al fatto che siano effettivamente utilizzabili. Per i mezzi di produzione questa condizione è sempre reale, non così per la forza lavoro, che per diventare un fattore effettivamente disponibile come fonte di lavoro immediato deve disporre in primo luogo di mezzi di sostentamento, poi di mezzi di produzione per poter entrare nel mercato. Poiché la forza lavoro oggettiva non si trova normalmente in questa condizione, la sua posizione contrattuale è generalmente debole. Quindi deve entrare nell’unità produttiva senza diritti sul prodotto, cioè come salariato. Anzi l’alternativa non si pone nemmeno. Ma il motivo più vero è che il capitalista potendo comprare il lavoro vuole e impone al lavoro questo tipo di rapporto, che gli permette di dominare il lavoro a suo piacimento.

E’ necessario proibire per legge il lavoro salariato, come accadeva nella vecchia Unione Sovietica. Ciò aprirebbe la possibilità per i lavoratori di associarsi e di acquisire in leasing i mezzi di produzione dai capitalisti, che non potendo assumere manodopera, sarebbero costretti ad associarsi ai lavoratori, come avviene nelle cooperative. Naturalmente sorgerebbe il problema del finanziamento di tali iniziative, per cui il capitalismo non scomparirebbe ma diverrebbe capitale finanziario.

La legge del lavoro dichiara semplicemente che tutto il prodotto va al lavoro, mentre il principio di proporzionalità afferma che ogni fattore di produzione viene remunerato con un compenso costituito da due parti: reintegrazione del fattore consumato e partecipazione al plusprodotto proporzionale al contributo in lavoro. Quindi come al lavoro immediato spetta il salario e una quota del plusprodotto, così al lavoro oggettivato spetta l’ammortamento e la partecipazione. Questa erogazione del plusprodotto ai produttori è stata talvolta discussa e e anche realizzata sotto la denominazione di “partecipazione agli utili. Ma nella sostanza si è sempre trattato di una forma di incentivazione, non del riconoscimento del diritto del produttore, ancora nell’ambito dei principi della proprietà privata, al plusprodotto, al pari del capitalista. Sembrerebbe inoltreche quando tali principi sono applicati al capitalismo da essi consegue il diritto al profitto del capitalista. Ma qui il capitalista non è più tale in quanto il profitto costituisce la partecipazione riconosciuta al possessore del lavoro oggettivato in quanto suo proprio lavoro, conseguenza che però si estende al lavoro immediato, con un analogo riconoscimento. Quindi capitalista e lavoratore riguardo al plusprodotto sono posti sullo stesso piano. Inoltre il principio del lavoro ristretto riconosce tale diritto solo al produttore diretto, non a chi ha acquisito tale diritto acquistando il lavoro altrui. Quindi i capitalisti, non essendo produttori diretti possono tutt’al più aver diritto a ricevere la loro quota dai produttori diretti. Ciò apre lo spazio a una inversione dei ruoli produttivi. Non sono più i capitalisti ad appropriarsi di tutto il prodotto per poi procedere alla ripartizione, ma tale funzione spetta ai produttori diretti, che quindi avrebbero un ruolo analogo a quello che il capitalismo riserva agli azionisti. Ma ciò significa l’instaurazione dell’autogestione, cioè del socialismo. Verrebbe cioè stabilita una simmetria nei ruoli produttivi di capitale e lavoro. Questo caso ipotetico mostra chiaramente l’opposizione tra capitale e lavoro. Tale opposizione può essere risolta solo istituendo il divieto di assumere lavoro salariato

3. Le leggi economiche come convenzioni

Una notevole conseguenza della legge del lavoro è che contraddice il principio secondo il quale i mezzi di produzione non creano plusvalore. Ciò va spiegato rilevando che il diritto al plusvalore non è una legge nel senso di legge naturale, cioè non è un fatto oggettivo ma un fatto giuridico. Del resto se il lavoro oggettivato è lavoro pregresso del possessore, tale fatto si giustifica da sé in quanto esso ha lo stesso diritto del produttore immediato ad una partecipazione al plusprodotto.. Inoltre la legge del lavoro dispiegata confuta la pretesa del capitalista, oltre all’ammortamento, ad una remunerazione del capitale costante. La questione non è la remunerazione in quanto semplice reintegrazione, ma la provenienza del plusvalore. Poiché il plusvalore esiste sulla base di precise convenzioni, la questione è semplicemente chi ne abbia il diritto. La risposta più semplice e plausibile è: il lavoro. Invece nel capitalismo vi è una grave contraddizione. Sebbene le due parti della remunerazione, la reintegrazione e la partecipazione, appaiano inscindibili in quanto insieme costituiscono il prodotto, in realtà non è così: per il lavoro vi può essere reintegrazione senza partecipazione, ciò che non può accadere per il denaro.

Le considerazioni precedenti mostrano come nel capitalismo la legge del valore e quella del lavoro siano in opposizione. Il principio di proporzionalità è una sintesi che supera entrambe. Ma si è visto che ciò è possibile solo restringendo il campo d’azione della prima e ampliando quello dell’altra. Il vero superamento si ha con l’abolizione della legge del valore e la piena attuazione di quella del lavoro. Infatti il passaggio al comunismo si ha con l’abolizione di tutte le precedenti norme che collegano contributo alla produzione e diritto al prodotto e quindi con il riconoscimento del carattere sociale della produzione, per cui tale deve essere anche la ripartizione. Abolizione quindi delle norme che hanno lo scopo di “dare a ciascuno il suo”, problema che è alla base di ogni questione sociale. Cioè, il problema della proprietà.

Senza voler qui addentrarci in tale questione, ci limitiamo in conclusione ad osservare che la proprietà presenta due facce. Da una parte l’istituzione di un rapporto di produzione che permetta di utilizzare al meglio le forze produttive esistenti. Dall’altra distribuire il prodotto alle classi e agli individui in modo da non creare tensioni sociali. La prima finalità si realizza enunciando principi di funzionamento dei rapporti economici che hanno la forma di leggi scientifiche oggettive. Esse sono in parte oggettive in quanto le forze produttive esistenti sono in parte determinate come forze naturali, ma sono determinate ancor più come forze sociali e lo sono storicamente in misura crescente. Ed in tale misura sono leggi sociali, quindi convenzionali. La seconda finalità viene perseguita istituendo norme giuridiche, che anch’esse hanno carattere convenzionale e lo sono doppiamente in quanto determinate dai rapporti di produzione esistenti nei luoghi della produzione. In realtà queste ultime svolgono la sola funzione di conferire valore normativo alle prime, che a loro volta giustificano le seconde, analogamente a come un presunto diritto naturale può essere posto a fondamento di un codice giuridico. In entrambi i casi si tratta di principi non solo convenzionali ma relativi ad un modo di produzione determinato, quindi non assoluti.

Valerio Bertello Torino, 22 febbraio 2014